Nell’era dei rifacimenti, dei reboot, delle reinterpretazioni e dei ripensamenti, diventa sempre più difficile che un prodotto venga “rifatto” in modo convincente o fedele all’originale o reinterpreti il soggetto di partenza in modo soddisfacente. Una delle più recenti creazioni Netflix, Devilman Crybaby, sembra aver messo d’accordo molti fan, mentre altri non hanno approvato le scelte fatte per questo nuovo lavoro tratto dallo storico manga.

Alle origini del manga di Go Nagai c’è un altro manga, mai terminato a causa della chiusura rivista che lo pubblicava, Mao Dante, che racconta dell’incontro tra un ragazzo e un demone, con la conseguente possessione del giovane. Subito la Toei Animation mostrò interesse per questa idea e Go Nagai si rimise all’opera, ripensando il tutto e trasformandolo nel gioiello del fumetto mondiale che è Devilman. Dal 1972 sulle pagine di Weekly Shonen Magazine, Akira Fudo, Ryo Asuka e Miki Makimura ne hanno fatta di strada fino ad approdare su Netflix. Dal 5 Gennaio è infatti disponibile sulla piattaforma e in tutto il mondo l’ultima riscrittura, in chiave contemporanea, del manga originale dal titolo Devilman Crybaby. Questa nuova serie manga prodotta da Netflix presenta due chiavi di lettura possibili: la prima è quella legata al confronto col suo (ormai) più che quarantenne progenitore; la seconda è sullo sviluppo degli anime su Netflix.

Il manga di Go Nagai ha visto, nel corso degli anni, diversi sviluppi, sia animati che cartacei (questi ultimi non hanno mai eguagliato il successo della serie madre). Per quanto riguarda gli anime, i frequentatori del Bar un po’ più cresciutelli, ricorderanno sicuramente il cartone animato (ebbene sì, da noi è giusto chiamarlo così) tratto proprio dal manga, il quale era, però, un modo di avvicinare spettatori giovani all’universo di Devilman. Il problema di quella serie - anch’essa del 1972 - fu proprio l’allontanamento dal prodotto d’origine, sebbene in Italia la censura la colpì così duramente da chiudere non solo la serie, ma anche proibendo la pubblicazione della sigla cantata dai mitici Cavalieri del Re, a causa di proteste di genitori poco abituati all’animazione del Sol Levante. In Giappone, d’altro canto, la serie fu comunque meno apprezzata rispetto al manga, soprattutto perché la storia ne veniva quasi stravolta, così come i suoi personaggi.

Ma cosa ne è oggi del mito legato a Devilman? La scelta di affidare la serie al regista Masaaki Yuasa ha fatto discutere. Questi ha infatti la fama di autore portato ad una profonda personalizzazione dei propri lavori (Kaiba, The Tatami Galaxy e Mind Game), fattore che, notoriamente, mette in preallarme i fan di vecchia data: fino a che punto ci si può spingere in una reinterpretazione? Yuasa riesce a dare una risposta al passo coi tempi, rispettosa del proprio progenitore artistico e priva di paternalismi legati ad un prodotto che finisce col risultare di più largo consumo. Le motivazioni di questa scelta, a ben vedere sono piuttosto semplici. Per accattivare lo spettatore è necessario parlare la sua stessa lingua, o meglio, comunicare col suo stesso linguaggio: l’uso dei social media e dei dispositivi quali gli smartphone è al centro di questo anime, tanto da divenirne un aspetto portante della trama in uno degli episodi e, più in generale, a costituire un ottimo legante tra i personaggi ed il mondo esterno. Il rispetto per quello che Go Nagai aveva scritto è estremo, ma possiede anche l’intelligenza e il coraggio di osare nel personalizzare aspetti fondamentali, come la natura dei personaggi e i legami che li uniscono. Infine, Yuasa è bravo nel raccontare una storia, nel non dare una propria univa interpretazione, evitando alla serie di cadere in ovvietà stilistiche e banalità concettuali, pur non venendo meno l’impronta tematica personale dell’autore.

Come è possibile racchiudere tutti questi concetti in una frase? Estrema conoscenza del media nel quale di opera. Yuasa non problematizza i personaggi, non ne problematizza i loro rapporti, problematizza la regia, la costruzione delle scene, i colori e la fotografia. Se da un lato il character design dei personaggi è spigoloso ed espressionista, le animazioni alternano momenti di estremo pathos animato con grande fluidità o trasporto; d’altro canto poi abbonda la staticità o la ripetitività funzionale al tipo di scena da rappresentare. Yuasa quindi conosce bene il materiale con cui va ad operare, sa come renderlo appetibile per le nuove generazioni ed è in grado di plasmare il suo stile al contenuto e viceversa. L’uso della tecnologia e dello stile di vita contemporaneo servono a lanciare messaggi legati alla spersonalizzazione, alla perdita dell’identità e alla problematicità dei rapporti. I colori sgargianti e la fotografia accecante delle scene di sesso o dei sabba si contrappongono agli scontri tra demoni, solitamente ambientati in luoghi oscuri, dove anche le scene sono buie e difficili da seguire, quasi a ricordare come le apparenze nascondano “demoni” molto più oscuri di quanto sembri. Del resto è la scena finale dell’episodio 9 quella che davvero chiude l’opera ripensata da Yuasa, in quella corsa in moto di Akira e Miki, giovani, vitali, circondati però da un accecante tramonto, una fine della luce, un tentativo di due anime giovani di ribellarsi alla fine, allo sfacelo dei nostri giorni, per correre sempre, inseguire la luce, scappare dalla tenebra alle loro spalle. Devilman del resto si può ridurre sempre proprio all’interrogativo sull’origine del Bene e del Male, della fine di uno e dell’inizio dell’altro. Complimenti quindi a Netflix, per aver cominciato ad imboccare (a detta di molti) la strada giusta per realizzare anime di qualità sempre maggiore (vedi Castelvania, altrettanto ottimo prodotto in stile manga).

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